Le Stazioni della Via Crucis

di Sergio Molesi

Stazione I
E’ una grande croce dipinta che si pone, come quelle medioevali di Giunta Pisano e Cimabue, al centro della Chiesa, ma non come punto di arrivo, bensì come punto di partenza. E’ la presentazione del tema quale potrebbe essere letto nel modo tradizionale e come “Pittura del simbolo” cioè come racconto che non sempre è confrontabile con la propria diretta e personale esperienza.

Stazione II
E’ un grande triangolo bianco che allude al mistero della Trinità. Mistero, per altro, sentito come dogma vissuto in modo intellettualistico, con il pericolo che diventi regola o legge, magari oggetto di speculazioni filosofiche, ma non calato all’interno della personale esperienza di vita.

Stazione III
La croce si è iterata, per effetto di ridondanza intellettualistica, in una sorta di trimorfo, che traspare dietro il simbolo della Trinità, aperto in basso, a significare l’inautenticità e precarietà di una conoscenza razionale, e del mistero della Trinità e del mistero della Passione. E’ la visualizzazione della crisi che ci sorprende quando vogliamo anteporre il nostro io precettisticamente raziocinante all’umile ascolto della Parola.

Stazione IV
La croce si ingolfa nella materia, gronda sangue e fermenta di corruzione in lontananza, mentre davanti pende sicura la corda alla quale ci si può ancora aggrappare per sfuggire alla precarietà, allo svuotamento , alla sofferenza. Il Cristo abbandona la sua sicurezza Divina e si fa Uomo, si carica dei peccati e delle contraddizioni degli uomini, vive l’esperienza della loro sofferenza ed inizia la sua discesa, la sua Kenosis (= svuotamento) e si fa, in questo, compagno di strada degli uomini. Anche l’artista, rifiutando la pur precaria corda di salvezza, assume completamente la propria responsabilità e sperimenta, nell’abbandono di ogni certezza precostituita la sua personale discesa.

Stazione V e VI
Sono un pannello di nove riquadri a una silloge di quattro tele accostate. Nel primo si modulano suasive situazioni cromatiche, che, pur nella precarietà dei mezzi, tendono a suggerire aeree situazioni atmosferiche. Nella seconda le quattro tele si accendono di vivaci effetti di materia e di colore. La due stazioni alludono al definitivo abbandono di ogni certezza precostituita ed il calarsi dell’artista nell’esperienza del cielo e della terra, per ritrovarvi la propria sofferta umanità, denudata di ogni dogmatica certezza. E’ il Cristo nell’Orto degli Ulivi, che si confronta solo con la sua umanità impastata di intelletto ed emozione, mente e cuore, razionalità ed organicità. Nel lavoro dell’artista i colori aerei e la cifra dispari alludono all’esperienza mentale del Cielo, mentre la cifra pari e la sensualità cromatica alludono all’esperienza terrestre (le quattro stagioni, i quattro elementi, ecc..).

Stazione VII
Bevuto fino in fondo l’amaro calice il Cristo, sperimentata la sofferenza (magari per un istante) di essere solo uomo, risorge, come Daniele che esce dalla fossa dei leoni, e come Giona che viene proiettato fuori dal ventre della balena. L’artista ha vissuto un’esperienza simile attraverso la pittura, ed ecco che allora gli appare la mistica scala di Giacobbe, salendo, non senza fatica, la quale può adire in modo rinnovato al mistero della Trinità.

Stazione VIII
La scala si rastrema e diviene il triangolo della Trinità, quasi a significare che la vera conoscenza del mistero non può prescindere dalle vie che si sono percorse per raggiungerlo.

Stazione IX
Il mistero della Trinità si itera, non per ridondanza, ma per effetto della vera comprensione, che si è potuta raggiungere solamente attraverso la Kenosis, cioè la discesa e lo svuotamento, situazione che sola consente, in tutta umiltà, la vera risalita. Il mistero della Trinità, che, nella seconda Stazione, si era presentato come distaccato dogma razionalistico, ora è diventato carne e sangue della vera esperienza dell’Uomo e dell’artista.

Stazione X
Riappare la croce, come nella prima stazione, ma più piccola, più equilibrata, con i bracci quali uguali e vista al filtro di una trasparenza cromatica. E’ l’autentica rivelazione dell’identità di Cristo, a cui si è potuto accedere solo i cammini di discesa e risalita. E’ la negazione della monumentalità e l’esaltazione dell’umiltà, à la vera conoscenza che prima ci era preclusa dall’orgogliosa sicurezza di possedere la chiave della verità. E’ il superamento definitivo della condizione di peccato in cui l’uomo ha vissuto per aver voluto mangiare dei frutti dell’albero della scienza del Bene e del Male.

Stazione XI
Una grande superficie colorata è coperta da un luminoso velo bianco: è il Cristo, che, sulla cima del monte Tabor, si rivela come Dio e come tale ci fa dimenticare, e quasi svaporare lontano l’esperienza materiale (cromatica) della vita e della sofferenza. La discesa non è che un ricordo e finalmente ci si trova quasi nella paradisiaca condizione dantesca di contemplare dall’alto questa “aiuola che ci fa tanto feroci”.

Stazione XII
Una stesura di colore molto chiaro su una superficie trasparente lascia intravedere in profondità il bianco assoluto della tela. Dalla materialità del dipingere tende a scomparire il colore e rimane solo l’atto pittorico. La pittura, depurata di ogni contingenza terrestre, diventa solo il filtro ed il mezzo attraverso cui si individua il Cristo come Dio che si è rivelato nella Trasfigurazione.

Stazione XIII
Un proiettore automatico fa cadere su una tela bianca la luce che passa attraverso a dei telaietti vuoti di immagini. Il cambio della diapositiva vuota ritma il tempo ed evidenzia brevissimi momenti di buio. Una volta esperita la divinità di Cristo, non c’è più bisogno del mezzo materiale della pittura. L’assoluto dello spirito dell’uomo si proietta nell’assoluto di Cristo che si è rivelato come Dio. I brevi momenti di buio scandiscono e significano la spiritualità dell’uomo che si situa nel tempo in contrapposizione alla spiritualità di Dio che si colloca al di fuori di esso, la contrapposizione tra il fine umano e l’infinità divina. Il proiettore, funzionando col sistema dell’autofocus, nell’istante in cui ci fa passare dal breve buio alla grande luce, emette un rumore quasi di lieve sofferenza, evidente e suggestiva allusione dell’anelito della finita esperienza umana all’infinito.

Stazione XIV
C’è solo una tela bianca che allude al destino ultimo dell’uomo, quando nella contemplazione finale di Dio anche il tempo, e la sofferenza che è insita in esso, saranno completamente superati.

Paolo Cervi Kervischer © 2008 - Valid: CSS, XHTML 1.0 - Powered by Fucine.IT - Credits