Per tutto l'oro del mondo

di Maria Campitelli

Titolo singolare questo scelto da Paolo Cervi per la sua nuova personale. Un modo di dire che in questo caso diviene onnicomprensivo. Nel senso che riferendosi certamente alla sua pittura, si allarga nel contempo ad altre sfere del reale. L’oro cadenza lo spazio  della nuova versione della “ dance “ di Matisse, illumina molte altre opere recenti, dai ritratti a doppio comparto, a composizioni multiple dalle trame variegate, stratificate, ma contiene anche un preciso riferimento a una smania dell’oro che oggi sembra invadere i nostri spazi, ed evidentemente anche le nostre menti, intendo soprattutto spazi urbani, dove le insegne di “compro oro” si moltiplicano a ritmo esponenziale. E non solo. Nella mente e nel sentire di Paolo Cervi l’idea dell’oro sconfina verso lidi e memorie remote ora riaccese da teorie, che stanno prendendo piede, sugli alieni, come quelle discusse di Zecharia Sitchin, sugli “Anunnaki” che cento e passa mila anni fa sarebbero sbarcati sul nostro pianeta per rifornirsi di quell’oro di cui avevano bisogno per farsi scudo da un clima in recessione che annichiliva la vita. L’oro è dunque nell’aria, nell’arte, nei processi esistenziali. Alita nella già citata “dance” matissiana, dove le danzanti sono ridotte a tre, trasparenti, mobili apparizioni galleggianti in una trama atmosferica fatta di scritture dorate frammentate, a loro volta sospese contro un fondo incerto, un fondo cromatico innanzi tutto che bene si accorda con l’oro e il bianco delle figure in movimento. Già in questi brevi accenni emergono alcuni dati salienti della pittura di Cervi. La qualità tonale, la stratificazione, la frequente comparsa di scritture, la parola cioè che si integra all’immagine e la compendia, la necessità di un racconto complesso, che chiama in causa altri linguaggi, come la scrittura appunto, sempre restando nel recinto pittorico, allargando però la sfera mentale e concettuale. I rimandi alla cultura pittorica, alla storia dell’arte sono molteplici. Tutta la linea del tonalismo da Tiziano agli impressionisti per l’intensa vitalità materica, con gli aggiornamenti informali, gli sgocciolamenti, la libertà acquisita nel secolo scorso, per la ricchezza di una pittura che si auto esalta di continuo comprendendo in sé il visibile e ciò che sta oltre. La pittura di Cervi è come un’onda oscillante tra reale riconoscibile e altre dimensioni che scavano nella mente, nei sentimenti, e in altri universi intravisti, intuiti, immaginati. Penso ai grandi volti femminili con gli occhi vuoti , “Spersi nella mente”, che sembrano fissare regioni inesplorate con accanto una superficie che accoglie campiture di svariata dimensione, o scritture, quasi l’espansione visiva di pensieri accumulati dietro a quegli occhi di carbone.

Paolo Cervi Kervischer ama paragonarsi ad un pilota di aereo che una volta avviati i meccanismi di decollo lascia poi che sia il pilota automatico a condurre l’aereo, per riacquistare padronanza del velivolo solo all’atterraggio, quando sono necessarie determinate manovre. Cioè l’artista, una volta impostato il nuovo lavoro, si lascia andare al volo della pittura, rispondendo a tutte le sensazioni, gli spunti, i sogni che lo attraversano mentre si abbandona al flusso pittorico che lo avvolge sgorgando quasi in automatico. Alla fine del volo rientra in sé, riprende le redini dell’organizzazione pittorica, conclude l’impostazione, assesta gli equilibri, cioè rafforza l’imprinting che lo contraddistingue. La sua pittura è una storia di consapevolezza e di evasione insieme. Di ragione e di spirito libero che invade altri mondi.

I rimandi si moltiplicano nelle opere di Paolo Cervi Kervischer. Nei volti, le elaborazioni di ori e argenti riecheggiano i decori klimtiani, filtrati dal predominio pittorico che ignora la definizione grafica cara alla cultura secessionista, mentre i corpi – uno dei temi dominanti nella pittura di Cervi – si riallacciano, nella memoria, a Egon Schiele. Anche in questo caso la pulsione erotica espressionista di Schiele si traduce in Cervi Kervischer in succosa materia pittorica che ignora la definizione grafica dei dettagli. L’artista sottolinea questa sottrazione, perché necessariamente in lui tutto si trasforma in fluenza ed impasto cromatico. E c’è poi l’uso dei riquadri, i comparti che scandiscono le superfici e fanno venire in mente Mondrian, escludendo anche qui il rigore geometrico e soprattutto l’uso di colori timbrici. E’ un’interpretazione dello spazio che si serve del tonalismo (il contrario dei colori timbici) delle sfumature, delle velature per suggerire non l’ordine razionale, ma le emozioni. Come i corpi femminili, quasi sempre in taglio diagonale e incompleti, con delle parti che rimangono oltre la cornice, e che in questa incompletezza rimandano ancora ad una suggestione dominante nel percorso culturale di Cervi Kervischer : il torso del Belvedere dei Musei Vaticani.

Una sorta di icona ricorrente, quasi un feticcio, nello straordinario groviglio muscolare, latore di energia, come i corpi monchi e trasversali di donna, che, trapassati essi pure da vitali vibrazioni energetiche, trasmettono un eros dirompente. Magari in alternanza a un riquadro compatto, di un arancio sfolgorante, che ricompone e contiene l’energia, nella ricerca definitiva di un equilibrio. Le esplosioni si contengono, l’opera alla fine deve rispondere al concetto classico di accattivante composizione, di conciliazione delle parti. E poi ancora le ombre grigie, quelle che Cervi Kervischer ha chiamato i “corpi vaganti vacanti” – il contrario dei nudi femminili - attorniati da una pioggia di linee colorate. Una di queste porta il significativo titolo di “Aporie”, in omggio al libro di Jaques Darrida. La citazione comporta un discorso di incertezze, di difficoltà ed inceppamento che, in un percorso filosofico, si interpongono nel processo logico. Ma certo si fa più ampio additando il fondamento incerto, lo stato di difficoltà e impossibilità o addirittura di rovesciamento che caratterizza il nostro tempo. E la folgorazione dell’oro, della bellezza pittorica, in contrapposizione all’avidità commerciale, o all’evocazione mitica di un passato che stranamente s’intreccia al presente, ribadisce uno stato di sospensione da cui forse può spuntare un futuro diverso ancora insondabile.

                                                                                          Maria Campitelli

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