Mostra all'Università di Trieste

Paolo C. K. espone le sue opere dal 28 giugno al 20 ottobre 2007 in Sala Atti "Arduino Agnelli" presso la facoltà di Lettere e Filosofia in Campo Marzio, 10.

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Trieste, tu difendi la pittura

di Massimo De Grassi

“Trieste, tu difendi la pittura”: Così Emilio Vedova apostrofava l'allievo Paolo Cervi Kervischer, identificandolo tout-court con il suo luogo d'origine e gratificandolo ironicamente con l'impegnativa e anacronistica etichetta di paladino della pittura.
Il grande pittore veneziano era però ben conscio della portata del proprio magistero, sapeva di aver fornito al giovane triestino gli strumenti linguistici necessari a trovare una via autonoma e percorribile: il resto lo ha fatto l'esperienza e, paradossalmente,  la geografia. Quando parla di Trieste, Paolo Cervi Kervischer racconta infatti della memoria storico-artistica troppo spesso tradita della sua città, schiacciata su di una lettura unilaterale che oscura di fatto l'ascendenza mitteleuropea: a questa tradizione l'artista prova da sempre a riallacciarsi, superando di slancio un secolo di oblio e recuperandone le radici profonde.
Nella pittura di Paolo Cervi Kervischer si sovrappongono così registri stilistici solo apparentemente contraddittori, in bilico come sono tra la sensualità del tonalismo veneto e la concitazione espressionistica di molta della cultura figurativa austriaca a partire da Schiele e Kokoschka: i corpi e i volti che vediamo in mostra diventano così i corpi e i volti di un secolo (in realtà di molti secoli) di pittura e non solo.

Il presupposto dialettico Corpo – Ratio cui si rifanno cinque delle opere esposte è quanto mai eloquente nel fissare le polarità di ogni possibile argomentazione. Il corpo e la ragione, il loro incontrarsi e scontrarsi reciproco e infinito, sono infatti i termini di confronto di oltre un secolo di attività artistica in quell'area mitteleuropea di cui Trieste è parte fondante e imprescindibile. Le sagome incerte di queste tele si muovono su questo orizzonte: il corpo nero, maschile, negato e inconoscibile se non nei suoi indefiniti contorni, è anche la memoria volutamente oscurata di quei momenti, il simbolo della negazione di un'appartenenza storica e culturale, oltre naturalmente a rappresentare, in chiave psicoanalitica, la supremazia dell'inconscio e tutto ciò che vi è sotteso.

Il corpo nudo femminile, esibito, provocante, grondante di colore, ripaga invece – o meglio, tenta di ripagare – i debiti di una tradizione troppo a lungo dimenticata, si riappropria di qualcosa che è suo e lo è sempre stato, alludendo ancora una volta alla multipolarità delle proprie fonti pittoriche: da Tiziano a Vedova, da Klimt a Kokoschka.
Freudianamente l’eros è l’occasione, la spinta di questa parte dell'operare artistico di Paolo Cervi Kervischer: un eros oscurato, alluso, allegoria dell’esistenza individuale in una società cha fa dell'individualismo un precetto fondante ma nel contempo ne disarticola i presupposti fino a negarli, mistificandone i contenuti.
La pittura vive così di queste tensioni, vive una volta di più della dicotomia tutta mitteleuropea tra anelito a una bellezza dionisiaca e l'imponente assistere alla sua progressiva frantumazione: l'“Apocalisse Gioiosa” con cui si è etichettata la fine dell'Impero.
Altro sono i dittici, più calati nel reale, più vicini ai processi culturali di una società alienante e massificante. Il volto femminile si rivela qui come negazione di se stesso, lontano da ogni possibile determinazione fisionomica e con ciò da ogni possibile potenzialità seduttiva. L’insistenza figurale su piani ravvicinatissimi, volutamente sfocati e indeterminati, restituisce però un'immagine 'altra' della femminilità, decontestualizzata e squisitamente pittorica, calibrata in un saldo equilibrio estetico tra evanescenza della figura e concretezza del colore, tra realtà e allusività.

I volti dei dittici, pur così densi di mestiere pittorico e di materia, non possono però che essere velati e sofferenti, ed emergono all’opacità del reale grazie al contatto salvifico con la parola, con la poesia. I cifrari tutt'altro che segreti delle frasi mai casuali che completano questi lavori alludono e rivelano insieme senza mai congiungersi veramente: “d'altro canto”, scrive Cervi “immagine e scrittura non dialogano tra loro: non c'è volontà di farli dialogare o, per meglio dire, esse dialogano tra di loro come due corpi che sfruttano e si muovono all'interno dello stesso spazio pur rimanendo due entità ben distinte. Esse, inoltre, alludono l'una all'altra, ma senza sottolinearsi a vicenda: la mia scrittura non è una didascalia, altrimenti non si tratterebbe più di pittura ma d'illustrazione”.
Ma la pittura non può e non deve essere illustrazione: “noi siamo le api dell'invisibile”, scriveva Rainer Maria Rilke alludendo al compito assegnato all'artista di restituire l'essenza di questa terra attraverso il certosino recupero delle emozioni. “La bellezza, senza la quale non ci sarebbe niente da fare su questa terra”, questo rimane da fare e da raccontare: tornare alla pittura, difenderla, diventa così anche un messaggio di speranza.

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